Si è appena concluso il mese in cui in tutto il mondo si celebra il Gay Pride, in ricordo dei moti di Stonewall, il ritrovo nel quale, nel giugno del 1969, gli omosessuali presenti si opposero alla polizia che aveva fatto irruzione nel locale.
Da allora in poi, ogni anno si sono tenute manifestazioni di “orgoglio omosessuale” prima a New York e poi ovunque, che hanno assunto un tono sempre più provocatorio e dissacrante, proponendo la visione del mondo LGBT come battaglia di libertà contro le discriminazioni.
Negli ultimi anni un fitto numero di aziende hanno sposato questa causa, sollecitate anche dalle più importanti società di consulenza con studi attestanti che promuovendola si ottengono benefici commerciali e di reputazione.
Promuovere le cause arcobaleno è diventato un elemento imprescindibile del politicamente corretto, motivo per cui imprese e istituzioni di ogni genere ne hanno fatto sempre più spesso una bandiera da sventolare.
Nel mese del Gay Pride il fenomeno ha raggiunto livelli di una evidente saturazione: marchi e loghi (anche di squadre di calcio e persino di università) si sono colorati di un arcobaleno che in realtà non rappresenta quello reale, che ha sette colori, mentre quello LGBT ne ha sei, e in ordine invertito. Secondo la studiosa Silvana De Mari “la bandiera a sei colori è il drappo della società teosofica, un movimento esoterico e satanista fondato nel 1875 da Helena Petrovna Blavatsky, il cui simbolo è un 6 sullo sfondo dei sei colori invertiti rispetto a quelli dell’arcobaleno naturale”. Nell’ultimo Gay Pride sono pure comparsi qua e là grandi striscioni con la scritta SATAN. Altri con il 6. E nessuno li ha allontanati.
In questa sede non si intende in alcun modo discutere della liceità delle battaglie LGBT. Ma della saturazione che sta provocando la sovraesposizione raggiunta da questa simbologia ad opera di un crescente numero di soggetti.
Da sempre le imprese sono alla ricerca di precisi valori identitari, di una brand image unica e memorabile. Ma se tutte si riducono a mostrare gli stessi colori, l’identità di marca si annacqua e svanisce in un magma sempre più indistinto.
Lo stesso concetto di identità di genere, concetto per nulla universalmente acquisito e che tecnicamente possiamo definire di advocacy, contiene in sé un paradosso, perché chi lo promuove sostiene la fluidità sessuale (quindi la non-identità) come un valore.
Non va dimenticato poi che il 95% della popolazione è eterosessuale: un conto è combattere ogni spregevole discriminazione, un conto è promuovere ad ogni piè sospinto degli stili di vita che riguardano una piccola ma assai rumorosa minoranza.
Sono poi da rilevare segnali crescenti di insofferenza: sempre più gruppi di gay e femministe stanno prendendo le distanze da manifestazioni troppo sguaiate e spesso blasfeme. Desta stupore, dal punto di vista del marketing, che imprese che hanno a cuore la famiglia vi mescolino così facilmente la loro immagine.
Poiché da più parti si sentono avvisaglie di boicottaggio, come avviso ai naviganti, ritengo quindi assai utile riportare il giudizio del sociologo Giuseppe Minoia, uno dei padri di Sinottica, la ricerca sui consumi più nota e più longeva del nostro paese. Gli avevo chiesto un intervento sul tema per il mio recente saggio “La sindrome del criceto, (Edizioni La Vela 2020):
“Ci si chiede perché partiti/movimenti cosiddetti sovranisti stiano ottenendo così larghi consensi: forse perché partiti/movimenti di segno opposto si sono troppo identificati nei segnali deboli della società, ingranditi dalle lenti mediatiche per fini commerciali. Attenzione, i segnali deboli non sono da confondersi con le attese dei deboli, che vanno ascoltate e possibilmente esaudite.
Ci si chiede anche perché le grandi marche, i megabrand planetari, stiano con tanta acribia cavalcando il politicamente corretto, rasentando a volte il ridicolo comportamentale.
Forse perché temono di non apparire up to date, forse perché temono di perdere il segmento dei nuovi millennial. Ma io consiglio loro di tornare a porre attenzione al mainstream”.