Ci sono voluti più di dieci anni di negoziazioni, ma –finalmente- il 4 marzo scorso i paesi membri dell’ONU hanno siglato un accordo internazionale per la protezione degli oceani .
Un documento importante, dal momento che animali e piante marine sono diventati sempre più a rischio, non solo per gli effetti del cambiamento climatico, ma anche per l’eccessiva pesca e per il traffico navale e l’inquinamento.
L’accordo riguarda le acque internazionali, quelle in cui tutti i paesi hanno diritto a pescare, navigare e fare ricerche e sancisce che entro il 2030 il 30% diventino aree protette per tutelare e favorire il risanamento delle specie marine a rischio.
In queste zone, verranno fissati limiti alla pesca e alle aree in cui possono transitare le navi, ma anche alle attività di esplorazione per estrazione di minerali dai fondali.
Sarà inoltre costituita una conferenza –COP- che si riunirà riunirà periodicamente per discutere delle questioni pertinenti.
Il nuovo trattato, dopo il mancato risultato dello scorso agosto, è stato firmato dopo due settimane di negoziazioni e grazie alla mediazione di Unione europea, Stati Uniti, Regno Unito e Cina.
Uno dei principali punti di discussione riguardava lo sfruttamento del materiale genetico di piante e animali marini che vivono in mare aperto, che può essere utile per la produzione di farmaci e cibo, ma anche per alcuni processi industriali. Mentre i paesi più ricchi hanno le risorse per esplorare le acque oceaniche e i fondali marini anche per questi scopi, quelli con le economie più deboli no: alcuni chiedevano pertanto rassicurazioni sul fatto che tutti potessero beneficiare in maniera equa degli accordi.
Il testo dell’accordo sarà adottato formalmente dopo un nuovo incontro dei paesi aderenti che decideranno le modalità per implementarlo.
L’Unione europea è intenzionata ad investire 40 milioni di euro affinché l’accordo venga ratificato e applicato dai paesi aderenti in tempi brevi.